Lo chiamavano "il Condor". Era un attaccante di razza: scaltro, freddo, incisivo, pratico. Antonio Lovecchio da Bernalda, classe 1942, nato nell'ottobre di quell'anno di guerra, un anno di gente dura, un anno che ha dato i natali a piccoli e grandi campioni: Zoff, Facchetti, Zurlini, Sandro Mazzola, Lodetti, Frustalupi e via via fino a Baffi, Manini, Olivieri, Dianti, Rigotto, Cominato, Cantarelli...
Lo chiamavano "il Condor", ma per me era "el Zorro", la volpe: 175 cm di nervi e fiuto del gol. I capelli folti e ondulati, non lunghi, Lovecchio non amava svolazzi e ghirigori, non giocava per la platea, non partiva da centrocampo per dribblare gli avversari e andare in gol. No, Lovecchio era lì, in area di rigore, sempre pronto a sfruttare ogni pallone giocabile, ogni indecisione dei difensori. Non c'è nessun miglior giuduce di sè stesso: la migliore definizione di Lovecchio è un'autodefinizione. Inzaghi. Naturalmente un Inzaghi "ante litteram".
Nel febbraio 1970 ho visto giocare per la prima volta Lovecchio contro la Salernitana. Una partita attesa con ansia dalla tifoseria granata per gli incidenti dell'andata. Feliciano Orazi presentava Di Mascio, Trozzi, Iuso, Notari, Taverna, Majo, De Foglio, Pomponio, Romoli, Lovecchio, Amodio. Sette gunga din e quattro stelle: Arnaldo Di Mascio, classe 1940 vecchio acrobata dei pali, eroe di cento e cento battaglie sugli infuocati campi del Sud; il biondo, altissimo Taverna, classe 1941, con i calzettoni sempre infilati nei parastinchi sì che le sue gambe da stambecco sembravano ancora più lunghe, più magre, più bionde; l'aletta De Foglio, un piccoletto tutto scatti e finte e infine Lovecchio che sfoggiava un cerotto sul sopracciglio sinistro, (marchio di uno scontro della domenica precedente) e la fascia di capitano, sempre a metà gomito. Il pubblico, per via del risultato dell'andata, lo beccò per tutta la gara, vinta dai granata per 2-1, ma Lovecchio al trentacinquesimo della ripresa si intrufolò tra i difensori e mise il solito sigillo al risultato segnando il gol della bandiera.
Il ricordo del campionato successivo è più vivido, perchè la Salernitana (che vinse anche quella gara per 2-1) per la prima volta, dopo molti anni si presentava alla seconda giornata dopo aver vinto in trasferta a Viterbo per 2-0, con reti di Bianchini e Rigotto. Il mitico Tom Rosati ritornava dopo 3 anni sulla panchina granata e al Vestuti c'era la folla delle grandi occasioni. La Pro Vasto presentava stavolta il giovane toscano Parlanti al posto di Iuso, il biondo Cioncolini al posto di Notari, Davide per Pomponio e Fanali in luogo di Romoli, ceduto al Pescara. Quella Salernitana non aveva ancora Raschi e Pantani e giocava con Valsecchi, Rosati, Pigozzi, Urbani, Olivieri, Daolio, Horton, Bianchini, Cianfrone, Santucci, Rigotto. I granata disputarono un grandissimo primo tempo e al quarantaduesimo Rigotto stoppò un pallone all'altezza del dischetto, fece fuori Parlanti con una doppia finta, si girò e col sinistro mise la sfera lì dove Di Mascio non poteva arrivare, sulla sua destra a fil di palo. I 12574 spettatori proruppero in un fragoroso boato, mentre io osservavo lo sconsolato Di Mascio, il sorpreso Taverna e Lovecchio che aveva qualcosa da dire a Parlanti, che si giustificò con un eloquente gesto, come per dire: ma Rigotto è Rigotto...
Nel secondo tempo la Salernitana provò ad addormentare la gara, ma al trentaduesimo il solito Lovecchio su cross da sinistra, che sorvolò le teste di Rosati, Urbani e Olivieri, con un tocco felpato sorprese Valsecchi. 1-1. Tom Rosati se la prese con Urbani, che allargò le braccia, come per significare: ma Lovecchio è Lovecchio...
Il pelato trainer granata sostituì l'estroso, ma evanescente Horton con il diligente Viappiani, che al trentottesimo pescò la verticalizzazione vincente per Bianchini, che in diagonale siglò il definitivo 2-1.
Solo 3 flashes per la gara dell'anno successivo: la punizione secca di Pantani, che battè il giovane Castellini, Lovecchio in rotta di collisione con Fraccapani e lo sgomitare di Di Paolo, una specie di Rosso Malpelo, tarchiato, tracagnotto e fulvo, Di Paolo che non è più tra di noi e ci guarda da lassù, dall'eterno stadio del cielo, dove non ci sono più spinte, rigori, gol, arbitri e calci d'angolo. Di Paolo era un onesto operaio del pallone e la classe operaia, si sa, va in Paradiso...
Non ho più visto giocare Lovecchio, che, però, mi ha riferito che dopo l' ultima gara disputata al Vestuti, con il suo solito gol un anonimo tifoso granata lo accarezzò mentre stava salendo sul pulmann. Tanto perchè il pubblico granata (non lo dico per sciovinismo) è un cane che abbaia, ma non morde e sa essere sportivo e generoso con gli avversari di valore. Una carezza sui capelli di Lovecchio: un gesto estemporaneo, un atto gentile. Eseguito quasi con dolcezza: adagio, citando il Pascoli, per non fargli male...
Salerno, 25 agosto 2010 Gerardo Andria
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